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Quanto la politica estera può rimanere estranea al dibattito?

Inviato da ISPI il Mar, 01/03/2016 - 17:56
Martedì, 1 marzo, 2016
USA & Americhe

La politica estera non entusiasma la competizione elettorale americana, né nella partita interna allo schieramento democratico né in quella del partito repubblicano. Ancor meno può entusiasmare nelle battute iniziali delle primarie, quelle di febbraio nelle quali si fanno strada i possibili candidati, in attesa del Super Tuesday. In questa fase preparatoria, comprensibilmente, i candidati ritagliano la loro campagna sulle comunità di riferimento degli stati entro cui avviene il confronto (ad esempio sulla consistenza demografica degli afroamericani e dei latinos, o sulla base delle caratteristiche socio-economiche degli elettori). Le questioni locali, in altre parole, dominano il dibattito.

Con il Super Tuesday il registro cambia solo parzialmente. La platea è certo più composita, il numero di stati coinvolti più alto e i delegati in palio aumenta significativamente. Ma nei raduni nei singoli stati i candidati continuano a far leva sulle vicende locali, la competizione intra-partitica rimane accesa e i temi di politica estera tendono a rimanere estranei al dibattito elettorale.

Tuttavia, nella campagna elettorale 2016 la politica estera è destinata a contare più del solito. Visto da Washington il mondo è profondamente cambiato da quando Obama vinse le elezioni nel 2008 e tutti i problemi che lascia in eredità al nuovo inquilino della Casa Bianca difficilmente possono rimanere completamente esclusi dal dibattito. La prima sfida viene naturalmente dalla politica mediorientale: paragonata al Medio Oriente del 2008 oggi la regione è radicalmente trasfigurata. Dopo il surge di Bush in Iraq, il paese sembrava relativamente sotto controllo, tant’è che lo stesso Bush avviò un piano di ritiro. Le primavere arabe erano al di fuori di ogni previsione realistica e ancor meno le tragiche conseguenze di quelle stesse “primavere” (un’etichetta che ormai oggi appare infelice e beffarda). Nel 2008 l’ipotesi che un nuovo soggetto, lo Stato islamico, si affermasse in così breve tempo come la più scottante minaccia alla sicurezza e agli interessi occidentali in Medio Oriente sarebbe sembrata macabra fantapolitica. Per il prossimo presidente la politica mediorientale va tutta ripensata e sul tavolo non ci sono soluzioni o strategie facilmente praticabili.

Ma il problema non è solo il Medio Oriente. I rapporti con la Russia sono ai minimi storici, la crisi in Ucraina e l’attivismo russo nella crisi siriana hanno complicato la partita oltremodo. Non ci sono i margini per un reset nei rapporti fra Usa e Federazione Russa simile a quello lanciato da Obama nel 2009. Oggi per il futuro presidente americano districare gli interessi comuni con la Russia dalle dispute e conflitti che corrono fra i due paesi è estremamente più difficile di quanto lo fu per Obama all’inizio del suo mandato.

L’economia internazionale rimane un problema aperto. Se Obama può vantare significativi successi economici interni, dalla crescita alla riduzione del tasso di disoccupazione, gli ultimi otto anni hanno visto stabilizzarsi il trend che spaventa gli Stati Uniti: i principali alleati soffrono (crisi dell’Eurozona, stagnazione del Giappone) e i potenziali nemici crescono (anche la Cina nonostante la crisi recente). Quando la cerchia dei partner è in crisi e i potenziali avversari progrediscono l’ombra del declino americano torna a presentarsi.

Di fronte a sfide così impegnative sullo scenario internazionale i candidati potranno evitare i temi di politica estera fino a un certo punto. Per ora gli effetti sulla competizione elettorale sono paradossali. Da un lato, Hillary Clinton affida alla sua esperienza, di first lady prima e di Segretario di Stato poi, la sua credibilità come presidente. E l’arma dell’esperienza la utilizza tanto contro il suo avversario interno (Bernie Sanders) quanto con i suo potenziali avversari alle presidenziali. Dall’altro lato, la scomposta corsa alla candidatura nelle fila repubblicane, non offre garanzie in materia di politica estera. Al di là di Donald Trump, che non rassicura nemmeno l’establishment del suo stesso partito, anche Cruz e Rubio sembrano soffrire di deficit di esperienza su temi internazionali.

Il paradosso sta proprio qui. La vantata esperienza e le competenze in politica internazionale della Clinton sono un’arma a doppio taglio: come si tiene insieme il fatto che dopo otto anni di governo democratico gli Stati Uniti si affacciano su un mondo che ha molti più problemi di quelli che aveva nel 2008? C’è da aspettarsi che Donald Trump, soprattutto se uscisse vincitore dopo il Super Tuesday, non si faccia scappare occasione di attaccare la Clinton in materia di politica estera proprio guardando a tutte le sfide che sono montate negli ultimi anni. Nondimeno, né lui né Rubio o Cruz possono fare affidamento sul vecchio credo diffuso nel pubblico americano secondo cui un repubblicano è sempre più adatto di un democratico a gestire le politiche di scurezza e di difesa. Questo, per una volta, è un luogo comune poco credibile. Poteva valere per McCain contro Obama nel 2008, in misura minore con Romney nel 2012, ma senz’altro non più oggi per Donald Trump contro Hillary Clinton.

Andrea Carati, Università degli Studi di Milano e ISPI Associate Research Fellow 

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Tags: 
politica estera Usa
Elezioni usa
US Election Watch
primarie usa 2016

Notizie, analisi, commenti e approfondimenti sulla corsa elettorale più importante dell'anno. U.S. Election Watch è il blog di ISPI sulle elezioni americane 2016, uno spazio di dialogo tra autori e lettori, un luogo in cui il racconto dei più complicati meccanismi della campagna elettorale si intreccia al racconto delle curiosità e delle peculiarità della politica americana.

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