Per annunciare agli israeliani la fine delle operazioni e la “missione compiuta”, Bibi Netanyahu, il ministro della Difesa Ehud Barak e quello degli Esteri Avigdor Lieberman si erano presentati in diretta tv. Non erano esattamente gli sguardi e i toni della vittoria, quelli esibiti dal vertice politico del Paese. Non è chiaro se nell’ultima crisi di Gaza le forze armate siano riuscite a raggiungere quel cercavano per annichilire la capacità del nemico di lanciare razzi. Ma quel che appare evidente è la vittoria politica di Hamas: ha trascinato a Gaza il mondo arabo rinnovato – quello che ormai bisogna ascoltare, ha imposto di nuovo la questione palestinese caduta nell’oblio, ha svelato la solitudine di Israele.
Bibi Netanyahu, i suoi ministri e la sua coalizione di governo nazional-religiosa, forse la più a destra della storia d’Israele, hanno fallito sotto ogni aspetto. Delle Primavere arabe, soprattutto di quella egiziana, hanno dato importanza solo ai rischi che sottendevano e non alle opportunità che offrivano: insieme all’Arabia Saudita sono rimasti fino all’ultimo i difensori dei vecchi regimi. Hanno pesantemente interferito nella campagna elettorale americana, mostrando chiaramente di stare dalla parte di Mitt Romney. Hanno congelato qualsiasi possibilità di ripresa del dialogo di pace con i palestinesi, hanno ignorato l’elemento moderato che rappresentavano Abu Mazen e l’Autorità palestinese, confidando sull’estremismo di Hamas e sul fatto che le Primavere non si sarebbero mai compiute.
Il quadro di oggi, dopo la tregua su Gaza imposta da Barack Obama e Mohamed Morsi, è sconfortante: anche se non compiute, le Primavere stanno già creando una geopolitica nuova nella regione, nella quale Israele è più isolato di prima; alla Casa Bianca c’è un presidente che ora detesta Bibi più di quanto già non facesse nel primo mandato; con la violenza Hamas ha imposto di nuovo la causa palestinese all’attenzione del mondo, rendendo irrilevante il pacifico Abu Mazen e lasciando Israele senza idee credibili.
C’è solo l’economia che funziona. Ma non dipende dall’attuale governo. Le uniche cose che doveva fare in termini di equità sociale in un sistema che – come ovunque in Occidente – arricchisce di più i ricchi e assottiglia la classe media, non le ha fatte.
C’è un ultimo errore che potrebbe costare a Bibi Netanyahu più caro degli altri: aver convocato le elezioni anticipate, tagliando di diversi mesi la legislatura in corso. Il Likud e Yisrael Beiteinu, cioè Netanyahu e Lieberman, hanno deciso di correre insieme, in una lista comune destinata a portare ancora più a destra l’attuale maggioranza di governo. Quando il primo ministro aveva fatto questo passo era sicuro della vittoria: cercava solo i modi per consolidarla. Ora, dopo la crisi di Gaza, questa vittoria non è così sicura. Il suo successo elettorale non dipende tanto da quello che le destre saranno capaci di fare ma da ciò che faranno gli altri. Al momento non esiste un partito o un fronte al centro né a sinistra capace di vincere. La sconfitta o la non vittoria su Hamas e la consapevolezza che a Washington c’è un presidente che attende solo un sostegno israeliano credibile per fare campagna contro Netanyahu, potrebbe spingere qualcuno a un atto di coraggio.
Non è Shelly Yacimovich, leader di ciò che resta del Labour, la personalità capace di sfidare credibilmente Netanyahu. Se però Tzipi Livni decidesse di tornare in politica, convincendo laburisti, Meretz e altre personalità laiche emergenti a unirsi in un fronte, le cose potrebbero cambiare. Il tempo stringe perché si voterà il 22 gennaio. Ma i partiti sono ancora impegnati nelle loro primarie e nella stesura delle liste elettorali dalle quali si capiranno gli equilibri, gli orientamenti se più a destra o a sinistra, verso la ripresa di un dialogo con i palestinesi o il rifiuto.